martedì 23 settembre 2008

Una sera alla Scala



Un bell’articolo del New Yorker (segnalato da Camillo) mi conferma una sensazione che ho sempre avuto.
E cioè che la musica, quando è VIVA, si nutre anche degli umori, dei rumori e delle reazioni del pubblico.
E che la musica classica e l’opera, oggi, nel modo in cui vengono proposte e fruite, siano una specie di cadavere imbalsamato.
L’attuale codice di comportamento del pubblico e dei musicisti, oggidì rigidissimo e mortuario, è cosa tutto sommato recente.
Se nel XVIII secolo il teatro era un luogo di socialità per aristocratici per i quali l’ascolto della musica era l’ultima delle preoccupazioni (si cenava, nei teatri, si rideva, scherzava, chiacchierava e corteggiava per tutto il tempo, degnando tutt’al più di un’occhiata ogni tanto quel che avvenivo sul palco o prestando un orecchio distratto alle esecuzioni dei musicisti, per tutto l’800 il teatro era ancora un luogo vivo.
Leggetevi un po’ quello che succedeva nei concerti di Liszt: spettatori che reclamano a gran voce un brano, un’interazione col pubblico che oggi ci farebbe pensare a qualcosa a metà strada fra l’heavy metal e il varietà.
La sacralizzazione dell’esperienza musicale, l’adozione di un rigidissimo codice di comportamento per spettatori e musicisti (gli smoking, il silenzio religioso, le occhiatacce a chi tossisce, inchini e salamelecchi) appare e viene messa a punto solo in epoca recente durante il XX secolo.
E, aggiungo io, è qualcosa che ha contribuito a fare della musica cosiddetta classica e dell’opera un bel cadavere, imbalsamato, inamidato e tutto in ghingheri.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ben detto

Marco

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